Islam e occidente - Alle ragici degli attacchi contro i cristiani

CHI IMPUGNA LA SPADA DELL’ISLAM? 
Parlare dell’uccisione di centinaia di migliaia cristiani da parte di musulmani, soprattutto negli ultimi trent'anni, significa sempre e solo raccontare morti annunciate.

Un’opinione, questa, che qualunque lettore può trarre agevolmente dalla pubblicistica internazionale, visto che chi studia l’escalation dell’intolleranza islamica è sempre obbligato dai fatti a mettere in parallelo le esplosioni di violenza con l’espansione del proselitismo wahhabita saudita.

Perché, un altro fatto certo è che dell’estremismo islamico conosciamo la data e il luogo di nascita.
E’ l’Arabia Saudita di fine anni Cinquanta, quando re Faysal partorì l’idea di creare un sistema per controllare politicamente e religiosamente il mondo islamico.

Il wahhabismo nasce, nel 1744, dall'unione tra Ibn Wahhab, un predicatore islamico fondamentalista, e un emiro, Muhammad Ibn Saud, al quale Wahhab iniziò a fornire una giustificazione teologica per quasi tutto quello che Ibn Saud desiderava ottenere: una jihad permanente che prevedeva il saccheggio delle altre città musulmane, l’imposizione di una severa disciplina e infine l’affermazione del proprio potere sulle tribù vicine, unificando la Penisola Arabica.

L’emiro e il predicatore suggellarono un «mithaq», un accordo che sarebbe stato onorato per l’eternità. Prevedeva il fervore religioso al servizio dell’ambizione politica, ma non viceversa.
E i risultati non si fecero attendere: nel 1801 primi a essere presi di mira furono gli «eretici» sciiti, con l’assalto della città santa di Kerbala e lo sgozzamento di 5 mila fedeli.
Nel 1802 fu la volta di Taif e relativo massacro della popolazione.

Poi venne il turno della Mecca, con la distruzione della tomba del Profeta e dei califfi.
Secondo molti studiosi, agli inizi del Novecento i sauditi persero la fama e il ruolo di capitribù ladroni, perché l’agente britannico John Philby convinse la corona britannica a sostenerli militarmente per la loro disponibilità, a differenza degli altri leader arabi, ad accettare un rapporto di vassallaggio con gli inglesi.

Lo storico arabo Said K. Aburish ricostruisce così l’occupazione saudita delle terre sacre ai musulmani del mondo intero: "Tra il 1916 e 1928 nella terra di Maometto ebbero luogo non meno di 26 ribellioni contro i Saud.
Agli inizi degli anni Trenta, su una popolazione di circa 4 milioni di persone, 1 milione fuggirono, 400 mila furono uccise o ferite in combattimento, 40 mila furono giustiziate pubblicamente, 350 mila patirono amputazioni".


Anche oggi tutti i musulmani sanno molto bene cosa significhi il «rakban», la spada che campeggia sulla bandiera degli Ibn Saud, e cosa essa comporti quando inizia a sventolare su una moschea.
Nel 1962 Faysal convocò la Conferenza Islamica dalla quale fece nascere la Lega Musulmana Mondiale, legittimando la Fratellanza Musulmana e dando inizio all'esportazione del wahhabismo.

Scopi dichiarati: sostenere l’espansionismo wahhabita con il finanziamento di moschee, madrasse, servizi sanitari, e favorire l’applicazione della sharia a individui, gruppi o stati e ad «altre istituzioni».
Sui media occidentali passa in sordina il fatto che i regnanti sauditi, oltre al titolo di «guardiani dei luoghi santi», custodi cioè della Mecca e di Medina, si ritengono anche meritevoli di al-Mufada («colui che merita la devozione»), Mawlana («il detentore dell’autorità divina ultima»), Waly al-Amr («colui che decide tutte le cose»).

Anche dopo la vicenda delle vignette danesi, secondo molti, studiata a tavolino dagli «esperti» della Lega Mondiale Musulmana, la genesi del terrorismo islamico continua a essere sepolta sotto una montagna di spiegazioni politico-sociali, sempre più destinate, di fronte all'evolversi dei fatti, a trasformarsi in questioni di lana caprina: il problema palestinese, la fine del socialismo arabo, il fallimento del nazionalismo riformatore nasseriano, la corruzione endemica, la crisi del patto tra sistema anglosassone e panarabismo, il rifiuto dell’egemonia occidentale...

In realtà, con forse l’unica eccezione dell’Afghanistan dei talebani, i grandi movimenti di massa del fondamentalismo islamico e i terroristi, che per deviazione ne derivano, si sono affermati nei paesi islamici a più alto reddito, come è successo a Giava, ricca e, fino ad allora, pacifica regione Indonesiana. Nel 1996 viene fondata la wahhabita Laskar Jihad, nel novembre 1998 iniziano a bruciare le chiese.

Nel dicembre dello stesso anno, e dopo una trentina di giorni delle solite manifestazioni indette nelle moschee finanziate dai sauditi, saranno 500 le chiese date alle fiamme nella sola Giava.
A queste vanno aggiunte le 22 chiese bruciate e 13 cristiani uccisi nella capitale Giacarta, il giorno di Natale di quell'anno.

Un Natale di sangue anche per la città di Poso, nella regione di Sulawesi, con 180 case e negozi appartenenti a cristiani distrutti in un solo giorno.
Ma a Poso i cristiani non avevano ancora visto il peggio: il giorno di Pasqua del 2000, oltre a una gravissima serie di violenze anche su donne e bambini, alle quali la polizia assiste senza intervenire, altre 800 case e negozi di cristiani vanno in fumo.

Un mese dopo il 23 maggio 2000, i cristiani sono di nuovo assaliti dalla solita folla islamica e questa volta muoiono 700 persone.
Basta seguire la cronologia delle persecuzioni islamiche anticristiane per scoprire che esse sono avvenute, e continuano ad avvenire, in paesi, anche europei, dove la convivenza tra le fedi non presenterebbe particolari problemi, se non fosse gravata dall'espansionismo wahhabita.

Il problema fra Occidente e Islam sembra quindi destinato a coagularsi soprattutto sul come e dove il wahhabismo troverà, magari dentro le ampie maglie delle democrazie avanzate, terreno per porre i segni del suo imperialismo.
Finora sappiamo che, per molti esperti, i segni del wahhabismo si trovano dietro colpi di stato, come quello a danno del Pakistan di Zulficar Alì Bhutto e a vantaggio del fanatico Zia ul Haq e la sua sharia; e anche alle radici dei fragili equilibri di intere nazioni africane.

Dopo il Sudan, primo e tragico banco di prova del modulo wahhabita di alleanza tra spada (il generale Bashir) e l’Islam (il teologo alTourabi), è stato il turno di Nigeria, Benin, Camerun, Burkina Faso, Somalia, Eritrea, Kenya.
Con la guerra afghana ha saputo organizzare e finanziare un network mobile internazionale che si è visto all’opera in Cecenia, Bosnia e Algeria.
Nelle aree da loro controllate la convivenza tra le fedi è impossibile, la libertà di culto è improponibile, le minoranze sono perseguitate, i diritti elementari di libertà sono negati.

Su questo orizzonte certamente pieno di nuvole, avverte Nigrizia, la più antica e più autorevole rivista terzomondista italiana, «ragionando di Islam e di Occidente, vanno evitate due opposte prese di posizione, entrambe comprensibili, ma parziali e quindi fuorvianti: la prima vede nelle innegabili difficoltà una sorta di destino segnato che porterebbe le nostre rispettive civiltà a un rinnovato scontro frontale senza rimedio; la seconda finge di non avvedersi della delicatezza e della complessità dei problemi rifugiandosi in un generico e ingenuo atteggiamento fiducioso e conciliante.

In altre parole, c’è ancora un margine per trattare, ma bisogna fare presto.
Lo scrittore premio Nobel Vidiadhar Naipani ha scritto: «Bisognerebbe esigere risarcimenti dall'Arabia Saudita.
Bisognerebbe ritorcergli l’argomentazione: se una nazione viene attaccata da terroristi islamici, tutti i paesi islamici sono responsabili e devono pagare.
Non tocca alle vittime pagare, tocca agli aggressori».
Forse è una ricetta un po dura, ma almeno è chiara.

Giuseppe

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